Il poeta incontra il bandito

L’intervista di Sebastiano Satta a Francesco Derosas

Era il febbraio del 1894 quando Sebastiano Satta e il suo compagno giornalista Gastone Chiesi intervistarono nella grotta-rifugio di Setti Funtani, nel territorio di Sassari, i latitanti Francesco Derosas, detto Cicciu, Luigi Delogu e Pietro Angius, tutti banditi di Usini (SS).


Dare la parola al bandito significò per Satta anche idealizzare la sua ribellione e identificarla inevitabilmente con la sofferenza sociale e con le angosce del mondo rurale, di cui già si è potuto apprezzare il portentoso lirismo nei “Canti barbaricini”, in versi famosi e conosciuti diretti proprio ai banditi definiti “belli, feroci e prodi”.
Il Satta poeta è l’eccellenza aulica senza eguali in Sardegna. I suoi versi sono intramontabili ma a onore del vero resta indelebile anche questa intervista.


Il tutto iniziò con l’incontro che il poeta e il giornalista ebbero con un giovanotto dall’aria misteriosa che li invitò a seguirlo e dopo poco svelò chi desiderava parlare con loro. Si trattava del famigerato bandito Cicciu Derosas. Da qui nasce la paura ma anche il desiderio di diventare depositari della confessione di un bandito efferato che aveva seminato il terrore nel circondario di Sassari, aveva sulla coscienza una dozzina di omicidi, che perpetrava di compierne altrettanti e che era riuscito a fuggire incredibilmente alle ricerche forsennate delle forze dell’ordine.


Decisero di seguire quel messaggero oscuro. Dal viottolo buio e sconnesso sbucarono in una strada carrozzabile, discesero per una conca e percorsero una valle boscosa, superarono un ponte e camminarono nel buio atroce della notte.
Finalmente dopo la lunga camminata nel silenzio più cupo luccicò il calcio di un fucile e si udì il suono del grilletto. Una voce tetra allora irruppe: “chie ses”? “Eo” – “chi sei”, “io”. E il passaggio fu libero.

Sebastiano Satta - Foto Fondo Pirari
Sebastiano Satta - Foto Fondo Pirari

Derosas era poco vicino. Un saluto rapido: “Buonasera” e una presentazione fugace e impacciata. Entrarono in una grotta e accesero uno zolfanello. Il silenzio perforò le pareti.
Angius e Delogu restarono immobili e silenziosi con l’aria sospettosa di chi la sa lunga e diffida anche della sua stessa ombra. A parlare e a raccontare era solo Cicciu Derosas.
Egli era alto, bruno, con baffi curati, il giaccone buttato sulle spalle e lucidi stivali.


Accese una candela. Gli altri banditi colpiti debolmente dalla luce languivano ai bordi della scena, figure marginali e stanche, residui picareschi di uno scorcio di tragedia. Al centro Derosas, lui il vero protagonista, illuminato per intero dalla luce della candela, iniziò a raccontare partendo da quella che fu l’origine dei torti subiti.
Ripercorse tutto, senza respiro e senza rimorso, soffermandosi sui dettagli, sui particolari. Mai un tentennamento, nessun rimpianto.
Satta poi, abilmente, riuscì a ricavarne un convincente profilo.


“Derosas è qualcosa di meglio e di peggio ad un tempo. É migliore di un volgare assassino, perché fino ad ora almeno e da quanto ci è risultato, non gli si può addebitare con serietà l’accusa di ricattatore, come non gli si può far carico di aver ucciso per denaro o di servire alle vendette altrui. É peggiore, più terribile, perché con l’assassino non ha in comune nessuna delle debolezze, nessuna delle viltà, nessuna delle resipiscenze morali”.


La descrizione di Satta inquadra alla perfezione le caratteristiche del bandito. Distaccata, lucida, precisa, descrive l’essenza di Derosas e lo colloca in una dimensione nuova, dove non c’è spazio per giustificare la malvagità e la crudeltà di azioni così irrisolute e spietate ma dove la condanna viene smorzata e quasi si placa, si adagia in quel bordo di voragine che tiene in sospesotutti i giudizi, perché deve tener conto di tutte le attenuanti.
Satta si lascia apprezzare perfino nel descrivere alcuni dettagli marginali, contorni di quelle vite strappate e condannate alla fuga, alla disperazione, alla tragedia.


“Essi non dormono due notti di seguito nella stessa località – e mentre due riposano l’altro veglia.
Essi vanno continuamente peregrinando per i monti del centro dell’isola spostandosi giornalmente per delle distanze relativamente enormi.
Essi vivono praticamente, il più spesso di pane e latte, qualche volta si danno il lusso di qualche po’ di carne.
Il loro armamento è completo e terribile. Bellissimi fucili, rivoltelle e pugnali”.

Armi dell'epoca - Foto Collezione Colombini -
Armi dell'epoca - Foto Collezione Colombini -

Nell’immaginario collettivo il bandito si forgia nella solitudine, medita la vendetta, assapora il rispetto, è desideroso di giustizia. L’intervista contribuì ad alimentare quel mito di terrore e ammirazione. Contrasto sempre presente quando si parla dei banditi sardi dell’Ottocento; criminali che cercano in tutti i modi di farsi giustizia da sé.


Cicciu Derosas e anch’esso figlio di quel tragico destino. Una falsa accusa di omicidio e il giovane onesto lavoratore si trasforma in uno spietato fuorilegge, come se scattasse una scintilla, inarrestabile e pazza, e avviasse la devastante metamorfosi. Strada senza ritorno quella che imbocca il bandito, specialmente se si sente defraudato della libertà e dell’onore; una frazione di secondo che ha un eco perpetuo. Il sapore acre della vendettache immancabilmente detta il passo.


Ecco per Derosas distendersi quel mondo: gli omicidi puntualmente eseguiti, le spie regolarmente trucidate e le fughe, tante, troppe. Un giorno tutto questo è destinato a finire, con la morte che giunge e si fa beffa anche del più grande bandito, benché sia sempre armato di tutto punto, col fucile carico al suo fianco. Per Desoras andò diversamente. Dopo i tre anni di latitanza la sua corsa finì all’interno di una cella angusta, a farsi consumare dai pensieri in una riproposizione tanto più limitata quanto più buia della sua grotta.
Si direbbe una conclusione scarsamente eroica.


Resta la memoria autobiografica di Satta, quella sì a rinverdire il mito; righe dalle quali si evince il carattere acerbo, misto di follia e coraggio e di una certa disperazione mascherata da quel sorriso beffardo. Il carcere non è come la morte nella macchia imbracciando lo schioppo. Quel tipo di morte offre al bandito un epilogo eroico. Il carcere a vita, al quale fu condannato Derosas, lo consegnò invece inevitabilmente all’oblio.


Fu fucilato e gettato in mare, scordato da tutti, anche se sembra di sentirlo ancora il suo urlo terrificante: (“Chal est s’usinesu chi s’at ponner a innanti de Cicciu Derosas”)? (“Qual è l’usinese che si metterà dinnanzi a Ciccio Derosas”)? riecheggiare dentro le contrade di Usini e raggiungere i confini dei territori di Giave e Cossoine, per fare infine capolino in una grotta al cui interno si consuma lentamente una candela.

 

01 ottobre 2015

Mauro Cuccu
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