Il caso Camarassa

Il delitto di Garlasco, l’efferato omicidio di Meredith Kercher sono i casi giudiziari che ancora oggi non sono giunti alla fine del loro iter processuale. Sono soltanto l’eco di numerosissimi e feroci omicidi a sfondo passionale che puntualmente occupano la cronaca nera. Per quanto il processo penale porti alla condanna del responsabile, il processo mediatico tentenna sempre tra l’ipotesi di reità e l’innocenza.

Il processo mediatico non ha mai un responsabile o innocente definitivo e non viene influenzato da quello penale nel suo verdetto.

Questo è quanto è accaduto anche per il caso Camarassa, un omicidio consumatosi a Cagliari il ventuno luglio 1668. Sono passati secoli, tuttavia questo delitto non è ancora stato dimenticato.


Pur essendo stati condannati i colpevoli alla pena capitale, il movente rimane ancora dubbio e si può certamente affermare che il processo mediatico o il “coro greco” continua ancora a danzare e commentare, a interrogarsi se fu omicidio politico o passionale.

In quel tempo la Sardegna parlava spagnolo. La dominazione non era certo una novità per il popolo sardo che, pur cedendo mal volentieri i suoi diritti di popolo, non rinunciava al baluardo della sua identità, seppur calpestata e sopraffatta dal potere di turno.

Don Manuel  Gomez de los Lobos marchese di Camarassa era vicerè di Sardegna, strenuo difensore del potere monarchico, rappresentante nell’isola del potere spagnolo.

Gli anni sessanta del diciassettesimo secolo furono un periodo instabile dal punto di vista politico, l’Europa era un focolaio di ribellioni  placate puntualmente col sangue e con accordi politici capaci di rattoppare gli strappi per tempi non troppo lunghi.

Anche la Sardegna aveva voce nel panorama europeo e gridava, come sempre, alla libertà dall’invasore di turno. In subordine all’indipendenza veniva chiesto almeno il godimento da parte dei sardi dei diritti minimi fondamentali, l’accesso ai pubblici impieghi e ai ranghi ecclesiastici. Problematiche a tutt’oggi mutate nella forma ma identiche nella sostanza.


Alla celebrazione dell’ottava della Madonna del Carmine il Viceré non poteva mancare. Scortato da una schiera di cavalieri armati, insieme alla sua famiglia, pregò tanto davanti alla statua della Vergine. Furono le sue ultime suppliche. 

Verso le sette di sera il cocchio viceregio procedeva nel suo ritorno in piazza Palazzo. Superata la Torre dell’Aquila (l’attuale torrione del palazzo Boyl in via De Candia), svoltò verso la via dei Cavalieri (via Canelles), procedendo in senso di marcia opposto a quello prescritto ai tempi nostri. Davanti all’abitazione di un certo nobile  Antioco Brondo spararono al Vicerè.

Chi assistette alla scena descrisse come Don Manuel nell’atto di spirare invocò Dio e la Vergine del Carmine; la moglie svenne sul suo cadavere, i figli e i familiari urlarono disperati. Il cocchio fu velocemente portato all’interno del palazzo reale, e le porte di Castello furono chiuse per impedire l’ingresso di bande armate di congiurati e per evitare che gli assassini fuggissero.

Da subito furono individuati come indiziati del crimine il marchese di Cea, suo nipote Don Antonio Brondo marchese di Villacidro, Don Francesco Portogues e Don Francesco Cao. Prontamente questi, seppur si  fossero dichiarati innocenti, si rifugiarono nel convento di San Francesco di Stampace per evitare la cattura ed organizzare la fuga.

Ma l’opinione pubblica volle come vera responsabile di questo gravissimo crimine, Donna Francesca Zatrillas.

Bellissima e ricca, nata a Cuglieri nel 1642, nipote e moglie di Don Agostino di Castelvì marchese di Laconi, fratello della madre, tanto che il matrimonio venne concesso con dispensa papale, si dice che fosse sensibile alle passioni amorose e al prestigio.

Sposa in seconde nozze del maggior antagonista politico dell’assassinato Vicerè, dopo la morte della madre fu ospite molto gradita dello zio materno, tanto che ebbero una figlia prima ancora del matrimonio. 

Il Marchese di Laconi venne ucciso un mese prima del Vicerè, nel mese di giugno. Due schioppettate  e diversi fendenti di lama di coltello per finirlo sull’uscio della sua casa in via La Marmora.

Il maggior sospettato di questo omicidio, il Vicerè, si dice che avesse ordito l’assassinio e che poi avesse disperso i sicari prima che potessero fare il suo nome. Ma la sua uscita di scena fu veloce.

Ciò che l’opinione pubblica non poteva non notare era quanta consolazione la vedova Laconi ricevesse dal suo vicino di casa da Don Silvestro Aymerich, col quale, già da tempo, intratteneva lunghi sguardi dal balcone e da li a poco divenne suo marito.

In una Cagliari “Caller” spagnola da far west si sospettava che una mantide religiosa avesse fatto uccidere il marito perché rapita degli sguardi del suo dirimpettaio e che avesse poi fatto ricadere la colpa sulla più alta carica governativa dell’isola,  ordinando anche il suo omicidio, mascherandolo sotto le false spoglie di  una vendetta che simulasse l’omicidio a scopo passionale.

01 dicembre 2016

Andrea Governi
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